La ricerca si propone di approfondire gli elementi che fanno del perdono e del pentimento due parole decisive in all’idea dell’esistenza come esercizio critico della verità. Rispetto alla chiusura in cui ogni cultura si rifugia, il perdono designa la figura di un’apertura radicale, di una precedenza dell’altro sul sé, di una speranza. È a nome dell’altro che il perdono può essere detto. Ma è sempre a nome dell’altro che può essere detto anche l’imperdonabile.Il perdono appartiene all’ordine dell’imprescrittibile, di ciò la cui necessità non si lascia dire nell’apoditticità di una legge morale universale. Intempestivo e inattuale, il perdono ha insieme una origine teologica precisa.Con la morte di Cristo in croce tutto è perdonato, agli uomini sono rimessi, per sempre, i loro peccati. Il tempo è compiuto. Tuttavia è proprio nella compiuta realizzazione di questo avvento che si apre la contraddizione che dona tempo al tempo della storia, così come dona tempo al tempo della singola esistenza. Ogni attimo, nella dimensione kairologica di tale realizzazione, non può che risuonare come l’ultimo, ma essendo ogni volta l’ultimo esso rimane iscritto imprescindibilmente anche nel penultimo. È nella contemporanea disincrasia e appartenenza di ultimo e penultimo che il singolo trova di conseguenza lo spazio della propria libertà e in essa la consapevolezza di dover sempre decidere in nome di quella verità ritenuta, per essere tale, come ultima.È il gesto di gratuità, di un “per nulla”, che interviene a modificare le relazioni esistenti. In questa gratuità si mostra una sovrabbondanza rispetto al dettato di una legge, una sovrabbondanza nella quale si inscrive il gesto del perdono, al di là di ogni calcolo, al di là di ogni giudizio: anche se il colpevole è tale, e se cioè ha fatto qualcosa senza diritto, c’è qualcosa che lo attende e che è migliore di ciò che egli ha fatto. Qui il perdono appare come indissociabile dalla richiesta di giustizia. Ma di una giustizia che, se ha corso, non ha corso che mediante una forma di sostituzione.Ma ancora: qual è la temporalità esistenziale propria del perdono e del pentimento? Se il perdono si lega al tempo, è però una caricatura del perdono pensare che esso dipenda dal fatto che col tempo tutto s’aggiusta. Questa usura del tempo non è che una deformazione. Il gesto di colui che perdona sembra essere costitutivamente doppio (e dunque ambiguo): il perdono deve dimenticare senza dimenticare. Dove “si fonda” la possibilità di un gesto di questo tipo? Anche perché il perdono deve sempre ricordare di aver perdonato, e colui a cui qualcosa è stato perdonato deve mantenere vivo il ricordo di questo “dono”. Dunque oblio, ma insieme memoria, e in entrambi i casi una memoria e un oblio differenti da quelli “normali”. Come fare il gioco di questa differenza? Dove si fonda? Oblio che non è la pura e semplice dimenticanza, memoria che non è più il solo racconto del passato, come garanzia di un’identità, ma la memoria di una promessa, memoria dell’altrimenti che l’oblio del perdono instaura rispetto all’economia della colpa e della pena.La ricerca si articolerà sui seguenti autori: a) KierkegaardDi Kierkegaard sono stati studiati soprattutto gli scritti “pseudonimi”, nei quali la “dialettica” dell’esistenza viene volutamente legata a certi presupposti che la limitano nelle sue potenzialità. È invece nei cosiddetti scritti “edificanti” che l’esistenza, in quanto posta “davanti a Dio”, ossia in modo radicalmente critico nei confronti di ogni presupposizione, riesce ad esprimersi in tutte le sue potenzialità. La “verità per me”, alla quale Kierkegaard si dedicò nella prima giovinezza, diviene negli scritti della maturità un incentivo costante alla denuncia dei limiti di ogni verità che prescinde dall’esistenza. Particolare attenzione meritano in questo senso le sue considerazioni sulla “remissione dei peccati” quale paradigma di liberazione dell’errore, e sul pentimento come dimensione che apre ad un rinnovamento più profondo e più vero di quanto consentito dall’etica classica e moderna. b) BenjaminIl contributo di Benjamin risulta decisivo nel senso che il perdono interviene al presente su un passato che non è mai concluso (questa “fine” del passato è l’illusione di dominarne il senso tipica dello storicismo), ma che il perdono cerca di modificare. In questo senso, il perdono non è un gesto di pura e semplice cancellazione, ma di ricordo, che rompe con la legge del silenzio, una parola che fa memoria, per rimettere in gioco il passato e la sua presunta conclusività. Si tratta di un gesto che riveli, nascosta nel passato, la possibilità di un presente e di un futuro perduti che erano la sua promessa. È nella narrazione che si accede al linguaggio per una possibile formulazione del torto e del perdono. Certo, anche qui resta dell’imperdonabile: sul margine del testo o della parola che cerca di fare e disfare costantemente il senso irreparabile di ciò che accade.